Scopriamo insieme “The Elephant Man”, capolavoro del 1980 del regista David Lynch, attraverso un’analisi psicologica mirata ad approfondire il concetto di “diverso”.
A cura di Sara Alicandro – scrittrice, cinefila e saggista dello spettacolo
Supervisione e approfondimenti: Dott. Marco Magliozzi – Psicologo Bari
È abbastanza difficile, oggigiorno, trovare qualcuno che non abbia sentito nominare la pellicola cult del 1980 The Elephant Man, diretta da David Lynch. Un’opera, si può dire, estremamente lucida e matura, anche rispetto ai primi esperimenti cinematografici del celebre regista statunitense.
Un po’ di trama
The Elephant Man si ispira alla vera storia di Joseph Merrick (nel film chiamato “John” per errore delle prima biografie scritte), un uomo nato con una rarissima malattia chiamata “sindrome di Proteo” che causa l’esponenziale e incontrollata crescita degli arti a seguito – o almeno così pare – di una mutazione del gene Akt1. Joseph (che d’ora in avanti verrà chiamato John per fedeltà al film) soffriva di una forma particolarmente grave della sindrome, che lo portò ad avere malformato praticamente ogni centimetro del corpo – compresa la testa – a esclusione del braccio sinistro e dei genitali.
Per il suo aspetto particolare, John divenne famosissimo nella società vittoriana all’interno della quale viveva, ma non in un senso positivo: per la maggior parte della sua breve vita (durata 27 anni) ha lavorato come fenomeno da baraccone, venendo grandemente sfruttato.
Nel film, infatti, come prima cosa lo vediamo costretto in uno spettacolo di strada organizzato dallo spietato Bytes; a trovarlo è il medico Frederick Treves (interpretato da un giovane Anthony Hopkins), che dovrà arrivare a pagare l’uomo per portarlo via dalle sue grinfie.
I primi approcci a Merrick non sono facili: Treves vorrebbe analizzarlo per capire le sue condizioni, ma il poverino non vuole saperne di togliersi il sacco di stoffa con il quale copre la sua enorme, deforme testa. Dopo alcune insistenze, però, il buon medico riesce a portarlo nel suo ospedale, ma sarà necessario chiuderlo in una stanza di quarantena per via del panico che scatena nel personale ogni volta che lo vedono.
Tuttavia, Treves ha bisogno del consenso del direttore dell’ospedale, Mr. Carr Gomm, che gli comunica fermamente di non poter trattenere nella struttura persone oggettivamente irrecuperabili. Così il dottore tenta di insegnare a Merrick delle parole da pronunciare davanti al direttore per dimostrargli che non è un perfetto idiota come potrebbe sembrare. Mr. Carr Gomm purtroppo capisce il gioco, ma – mentre si allontana – l’uomo elefante inizia a recitare il ventitreesimo salmo della Bibbia, così convincendo il direttore a farlo restare.
Mostrarsi per ciò che realmente si è, al di là delle imperfezioni
Da qui pian piano emergerà l’estrema intelligenza e l’acutissima sensibilità di John, che si sentirà in qualche modo al sicuro e in diritto di mostrarsi per ciò che è veramente: un essere umano non come gli altri, ma fuori dal comune in un senso spiccatamente positivo.
Andando al di là del suo aspetto fisico, la borghesia inglese inizia a essere talmente tanto affascinata dalla sua figura che praticamente chiunque ha voglia di instaurare un rapporto con lui e farci conversazione; nonostante questo, Madre Shead (l’infermeria che lo aveva in cura) fa presente al dr. Treves che, nonostante le sue buone intenzioni, ha reso Merrick un fenomeno da baraccone in un modo non molto diverso da Bytes. E infatti, nonostante la vita più felice che John sta conducendo, i guai non sono ancora finiti.
Proteggere qualcuno, ma senza renderlo fragile
Soffermiamoci su questo: si dice che più proteggerai qualcuno o qualcosa, più questo diverrà fragile e frangibile. È giusto battersi per chi non ha i mezzi per farlo, aiutare chi è in difficoltà e non sa cosa fare, ma poi è davvero necessario e giusto non lasciare mai la loro mano, non dargli la possibilità di condurre da soli le proprie lotte?
John è passato dall’essere odiato e deriso, in un universo in cui lui era l’essere sbagliato e deforme, all’essere messo su di un piedistallo, sotto una spessissima campana di vetro, che però alla fine qualcuno è riuscito comunque a distruggere, e John – ancora una volta, come prima – non aveva nessun mezzo per difendersi.
Il vero coraggio è scegliere per sé stessi
Ma John ha vinto lo stesso, lo ha fatto quando ha scelto di dormire come le persone normali (chi ha visto il film sa).
Con quel gesto tenerissimo e commovente, ha scelto di morire e iniziare a vivere per davvero allo stesso tempo.
Questo meraviglioso gioiello di David Lynch ci ricorda sempre che è una fortuna avere chi ci guida e ci salva dal baratro nero della sofferenza, ma il vero atto di coraggio è prendere quegli strumenti e scegliere finalmente per sé stessi.
Tanto, come diceva saggiamente Nelson Mandela: “Non perdo: o vinco o imparo”. E imparare è un passaggio sacrosanto per essere uomini liberi.
A cura di Sara Alicandro – scrittrice, cinefila e saggista dello spettacolo
Supervisione e approfondimenti: Dott. Marco Magliozzi – Psicologo Bari
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