Scopriamo insieme uno degli esperimenti psicologici più controversi: l’esperimento carcerario di Stanford, che ha dato vita al famoso Effetto Lucifero.
© A cura di Dott. Marco Magliozzi – Psicologo Bari
L’esperimento carcerario di Stanford (1971) è uno degli esperimenti più interessanti e controversi nell’ambito della psicologia.
Condotto da un team di ricercatori guidati dal Prof. Philip Zimbardo, illustre psicologo americano di origini italiane (venuto recentemente a mancare il 14 ottobre 2024), lo studio ha dato vita al famoso Effetto Lucifero.
Ma di cosa parliamo?
Le premesse dell’esperimento di Stanford
Le premesse teoriche dello studio si basavano sull’assunto che un insieme di individui, inseriti in uno specifico contesto e all’interno di un gruppo, tendono a perdere il senso di identità personale e di responsabilità, alimentando condotte violente e antisociali.
L’idea dell’esperimento era quella di replicare un ambiente carcerario, creando due “squadre” di partecipanti, ovvero guardie e detenuti, identificati tramite specifiche divise per farli entrare ancor di più nel ruolo.
Le guardie erano addirittura dotate di manganello e venne data loro massima libertà sul come far rispettare l’ordine all’interno del carcere.
Gli sperimentatori scelsero 24 ragazzi di sesso maschile, di ceto medio, selezionati per avere un carattere equilibrato, maturo e poco propensi a condotte violente e devianti, per poi dividerli casualmente nei due gruppi.
Cosa accadde durante l’esperimento?
Durante l’esperimento accaddero cose molto drammatiche. Dopo solo pochi giorni, i detenuti si ribellarono alle guardie, strappandosi le divise e barricandosi nelle celle.
Le guardie, di contro, usarono dapprima la violenza psicologica per dissuaderli da questa ribellione, per poi virare su mezzi molto più sadici: costrinsero i carcerati a defecare in secchi che non potevano mai svuotare, a pulire le latrine a mani nude, a cantare canzoni oscene.
Con il passare nei giorni, gli studiosi notarono come le guardie sembravano apprezzare tale condotta, aumentando sempre più il loro lato sadico, mentre i prigionieri avevano cominciato a sviluppare seri disturbi emotivi.
Si decise, quindi, di interrompere l’esperimento.
I risultati dell’esperimento di Stanford: la deindividuazione
Philip Zimbardo scoprì, tramite gli eventi di questo drammatico esperimento, i risultati del processo della deindividuazione: alcuni individui, inseriti all’interno di un gruppo nei quali sono portati a rispettare uno specifico ruolo, smarriscono nel tempo la propria identità, amalgamandola con quella degli altri.
Si perde, quindi, il senso di responsabilità personale, si riduce la consapevolezza delle conseguenze dei propri comportamenti, si riduce il senso di colpa e la vergogna, in quanto ci si convince che ciò che si agisce sia dovuto al fatto di star perseguendo gli scopi del gruppo stesso.
L’Effetto Lucifero
Il risultato più importante di questo studio fu senza dubbio quello che gli sperimentatori chiamarono Effetto Luficero.
Nel 2007, Philip Zimbardo scrisse un saggio intitolato proprio “Effetto Lucifero: Cattivi si diventa?”, nel quale approfondiva i risultati dell’esperimento di Stanford.
Utilizzando la metafora di Lucifero, ovvero che da essere il più bello e luminosi degli angeli divenne il signore dei diavoli e dei demoni, Zimbardo vuole sottolineare come ognuno di noi possa trasformarsi radicalmente e perdere addirittura la propria identità, se inserito in uno specifico contesto e in un gruppo.
Lo psicologo evidenzia come non solo le caratteristiche interne dell’individuo corroborino alla nascita di condotte violente e antisociali, ma anche le influenze ambientali, dapprima sottovalutate.
Critiche all’esperimento
L’esperimento carcerario di Stanford fu duramente criticato dalla comunità scientifica per diversi motivi.
In primis, i risultati della ricerca non vennero fatti analizzare da altri psicologi, così come gli standard richiedono, ma furono subito pubblicati.
Inoltre, il campione scelto di partecipanti (24) era troppo piccolo e troppo poco eterogeneo.
A onor del vero, nel 2001 due psicologi inglesi, il Prof. Steve Reicher e il Prof. Alex Haslam, provarono a replicare l’esperimento, ottenendo risultati simili anche se opposti: in tal caso furono i carcerati ad agire violenza sulle guardie.
Riflessioni conclusive
L’esperimento del Prof. Zimbardo porta alla luce una dinamica umana molto controversa: l’influenza che i gruppi sociali hanno sull’individuo.
Tutti noi, infatti, se inseriti all’interno di un contesto specifico, di una comunità, di un team, tendiamo inconsciamente a rispettare le regole condivise, a ragionare in maniera più “collettiva”, perseguendo gli scopi comunitari.
Banalmente, possiamo notare questo effetto anche durante una semplice serata in amicizia, senza per forza scomodare carceri o altri luoghi: quando siamo circondati da amici, la nostra individualità si mescola con quella degli altri, portandoci ad agire e a pensare come gruppo.
Qual è il rischio quindi?
Se questo status collettivo permane per troppo tempo, il pericolo è quello di perderci e di smarrire la nostra identità: qualora gli scopi del gruppo diventino violenti, irrispettosi, contro l’etica, la morale e la legge, tutto questo potrebbe portare i soggetti fragili a seguire inconsapevolmente il “branco” e compiere quindi anche azioni illegali, come purtroppo accade in alcuni gruppi di ragazzi.
© A cura di Dott. Marco Magliozzi – Psicologo Bari
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