Scopriamo insieme “Squid Game”, la nuova serie tv di successo targata Netflix, che ci catapulta all’interno di un assurdo gioco, nel quale i partecipanti si ritrovano a dover affrontare la morte pur di sopravvivere.
© A cura di Dott. Marco Magliozzi – Psicologo
Con 111 milioni di spettatori in tutto il mondo, “Squid Game” è, ad oggi, la serie tv di maggior successo a livello planetario!
Netflix è riuscita a far centro, trattando temi molto, ma molto delicati, proponendoli attraverso una trama dalle tonalità assurde e, nello stesso tempo, più vicine a noi di quanto si possa pensare.
Attenzione SPOILER: per l’analisi di oggi, sono obbligato ad anticipare pezzi della storia e parte del finale. Consiglio dunque la lettura solo a coloro che abbiano già visto la serie.
La trama
Corea del Sud, Seoul. Il protagonista è Seong Gi-hun, un uomo divorziato, padre inaffidabile, disoccupato, con valanghe di debiti e dipendente dalle scommesse sui cavalli da corsa. Dopo moltissimi tentativi di riprendere in mano la propria vita, tutti catastroficamente falliti, un giorno viene avvicinato da un misterioso uomo ben vestito, che lo invita a partecipare a un altrettanto misterioso gioco, grazie al quale potrebbe vincere miliardi e miliardi di won (la valuta sudcoreana).
Seong Gi-hun decide quindi di accettare: solo così, infatti, potrà ripagare i debiti che ha nel tempo accumulato, essere visto dall’anziana madre non più come un poco di buono e, soprattutto, diventare il genitore che la figlia merita.
L’uomo si reca quindi nel punto di incontro prestabilito, dove viene invitato a salire su di un’auto, guidata da un individuo dal viso mascherato, che lo fa addormentare narcotizzandolo.
Una volta risvegliato, egli si ritrova nel luogo segreto nel quale si praticano questi giochi, scoprendo che lì con lui ci sono centinaia di persone, dalle vite ugualmente complicate e costellate di difficoltà: uomini d’affari in bancarotta, malavitosi, operai in cassa integrazione, fuggitivi dalla Nord Corea e molti altri. Uomini e donne provenienti da ogni ceto sociale che hanno in comune un’unica cosa: l’essere sommersi dai debiti e non saper più come andare avanti nella vita.
I partecipanti sono tutti vestiti con abiti uguali, ovvero tute simil sportive dai colori spenti, ognuno con un numero di identificazione in bella mostra sulla giacca e sulla maglietta.
Poco dopo i giocatori fanno la conoscenza dello staff dei giochi: letteralmente dei soldati vestiti di rosso, con nere maschere con disegnato il simbolo di un cerchio, triangolo o quadrato – a seconda della loro gerarchia e importanza – che hanno il compito di supervisionare e sorvegliare i concorrenti, nonché assicurarsi che il tutto proceda per il meglio e senza intoppi.
I membri dello staff spiegano dunque le poche e semplici regole delle sfide: i giocatori dovranno gareggiare, gli uni contro gli altri o a volte in squadre, per superare sei giochi per bambini, come ad esempio “un, due, tre, stella!”, “tiro alla fune” e simili.
Una semplice ma fondamentale regola: chi viene eliminato, viene letteralmente ucciso!
La psicologia dietro “Squid Game”
Partiamo dunque da una semplice domanda che “Squid Game”, indirettamente, pone anche allo spettatore: cosa siamo disposti a fare pur di rimanere in vita?
La trama, infatti, ci catapulta, immediatamente e senza mezze misure, nelle vicende dei protagonisti, personaggi indubbiamente ben descritti, ognuno con le proprie caratteristiche psicologiche, che condividono lo stesso obiettivo: sopravvivere.
Non importa con quali mezzi, non importa se utilizzando la violenza o la furbizia, ognuno dei protagonisti desidera soltanto una cosa: restare in vita.
Durante la serie assistiamo infatti a scene nelle quali ci si uccide a vicenda anche all’infuori dei giochi, usando astuzia, furtività o la forza bruta. Non solo: durante le sfide, si preferisce tradire i propri amici pur di rimanere in vita, imbrogliare i concorrenti, bypassare le regole senza che le guardie se ne accorgano.
Come dar loro torto, penserete. Già. Ma fino a che punto noi, nelle loro stesse condizioni, saremmo disposti a scendere? Sino a che punto saremmo disposti a rimanere sì in vita, ma facendo a pugni con la nostra stessa umanità, magari distruggendo ogni forma di rispetto per il nostro prossimo? Cos’è più importante?
Il merito di “Squid Game” è dunque quello di invitare, implicitamente, gli spettatori a riflettere su sé stessi, portando a mettere in discussione i valori di ognuno, in situazioni nelle quali la vita sembra poter scivolar via in ogni momento.
Amicizia, rispetto reciproco, umanità, bontà. Saremmo disposti a boicottare queste sacrosante virtù, che tanto osanniamo nella nostra quotidianità, pur di sopravvivere? O magari, al contrario, decideremmo di sacrificarci, pur di restare fedeli a noi stessi?
Un lento e graduale processo di disumanizzazione
Sangue, sofferenza e solitudine. Queste sono le tre “S”, le tre parole chiave alla base della serie tv.
Come detto, “Squid Game” ci racconta una realtà nuda e cruda, caratterizzata da violenza, sangue e morte.
I giocatori, nel tempo, vengono pian piano deumanizzati, perdendo la loro natura di esseri umani. Identificarli tramite un numero e vestirli tutti uguali, dando loro solo la possibilità di dormire – nemmeno più di tanto – e cibarsi, è un processo ragionato che ha l’obiettivo di renderli delle macchine, oggetti, animali da competizione.
Inoltre, i tortuosi corridoi colorati pieni di scale e porte, utilizzati dai concorrenti per raggiungere i vari giochi e ispirati senza dubbio ai dipinti di Escher, rappresentano un ulteriore processo di estraneazione, essendo luoghi nei quali lo scorrere del tempo sembra essere indefinito o addirittura fermo.
Il processo di disumanizzazione non termina qui: anche dopo la morte, i partecipanti sono infatti trattati come semplici oggetti da smaltire; i loro corpi vengono cremati, senza alcuna sepoltura o rito funebre. Non solo: i cadaveri meno malandati vengono selezionati per essere vivisezionati e per estrarre i loro organi pur di venderli.
I giocatori? Semplici cavalli da corsa sui quali scommettere
Il deus ex machina dietro questi giochi è rappresentato da un gruppo di uomini dalle finanze spropositate, che pur di divertirsi e provare nuove emozioni, ormai perse a causa della loro vita fin troppo agiata, decidono di puntare tutto su questo nuovo passatempo: veder gareggiare, fino alla morte, altri esseri umani e scommettere su di loro come se fossero cavalli da corsa.
Questa mancanza di stimoli, quest’assenza di uno scopo nella vita, è rappresentata al suo estremo dal giocatore 001: un signore avanti negli anni che in realtà risulta essere la vera mente dietro tutto questo, il quale, pur di sentirsi nuovamente vivo, decide di partecipare ai giochi in prima persona, sperimentando il pericolo e la morte da vicino, assieme agli altri giocatori.
Sfidare la morte come unica e sola scelta
Una delle regole principali di “Squid Game” è che non esiste coercizione: i giocatori non solo possono decidere liberamente se partecipare ai giochi ma, una volta entrati, possono anche votare democraticamente e decidere se terminarli.
Durante la seconda puntata, infatti, assistiamo a una votazione di massa, nella quale alcuni concorrenti votano addirittura di restare a giocare. Qual è il messaggio? Senza dubbio quello che sfidare la morte e tentare il tutto per tutto è indubbiamente preferibile a una vita fatta di debiti, continui fallimenti, fughe dai creditori… sentirsi delle nullità. In “Squid Game”, invece, si ha la sensazione di avere nuovamente uno scopo e la paura della morte è perfino inferiore all’idea di tornare nella quotidianità di sempre.
La votazione che avviene porta la maggioranza a decidere di interrompere la partita. L’assurdità, ma che in fin dei conti tale non sembra, è che alla fine alcuni giocatori che avevano votato per interrompere i giochi, tornano sui loro passi, ricontattando gli organizzatori pur di essere riammessi. Il messaggio? Nuovamente il medesimo, ovvero che “sbattere” letteralmente contro la dura realtà è molto peggio di tentare il tutto per tutto e sfidare la morte.
Queste situazioni ci sembrano davvero assurde e lontane da noi. Ma quante persone, che magari non conosciamo, vivono in condizioni così precarie, nelle quali la speranza è solo un termine vacuo e senza significato? Quante persone, al mondo, accetterebbero senza troppe remore di sfidare la morte pur di avere una seconda chance nella vita?
Una ferita che non potrà mai guarire
Il finale della serie tv porta con sé notevoli messaggi, sui quali è d’obbligo riflettere.
Il protagonista, Seong Gi-hun, durante l’ultimo gioco contro l’amico di infanzia Cho Sang-woo – trasformatosi nel tempo in un uomo cinico disposto a tutto pur di sopravvivere –, decide di interrompere la competizione, nonostante avesse la vittoria in pugno. In quel momento, il desiderio di divenire miliardario viene meno: se lui avesse vinto, l’amico sarebbe stato eliminato e quindi ucciso. Seong Gi-hun comunica quindi alle guardie la sua volontà di stoppare la partita ma, senza che lui possa far nulla, l’amico di sempre si suicida con un coltello.
Seong Gi-hun, dunque, vince “Squid Game” senza in realtà averlo mai desiderato, perdendo tutto ciò che aveva di più caro: l’umanità, l’amico di infanzia, la speranza per il futuro e, non solo, scopre anche che l’anziana madre nel mentre è deceduta a causa di un diabete mai curato.
Le scene finali ci mostrano un uomo distrutto, senza più alcuno scopo nella vita, sommerso dai sensi di colpa e incapace di godersi il premio miliardario da lui vinto.
Soldi macchiati di sangue, il sangue del suo amico di infanzia e di tutte le persone che sono morte durante i giochi. Soldi frutto di becere scommesse da parte di ricconi senz’anima, vogliosi solo di divertimento estremo. E voi? Li avreste usati senza sentirvi in colpa?
Dopo un intero anno, vissuto senza minimamente toccare il montepremi e nell’assoluta povertà, Seong Gi-hun decide di rialzare la testa. Si reca nell’orfanatrofio nel quale viveva il fratellino di Kang Sae-byeok, una ragazza morta durante i giochi, alla quale lui aveva promesso che si sarebbe preso cura del fratello in caso di vittoria. Conduce dunque il bambino dall’anziana madre di Cho Sang-woo, l’amico di infanzia, alla quale le chiede di prendersi cura di lui. Non solo, le dona metà del montepremi, forse perché sente nel cuore che metà di esso appartiene in realtà all’amico o, forse, per liberarsi dal senso di colpa che lo attanaglia.
Il protagonista si colora anche i capelli di rosso e, qui, è possibile dare il via alle libere interpretazioni: che sia un modo per identificarsi con il suo vissuto traumatico, nel quale il colore rosso delle guardie è ormai un’immagine indelebile nella sua mente?
Enigmatica anche la telefonata finale, nella quale egli afferma di non essere più un cavallo da corsa. Cosa avrebbe voluto intendere? Che cova dentro di lui l’inconscio desiderio di passare dall’altro lato, dal lato degli organizzatori, identificandosi con i carnefici proprio come accade nella sindrome di Stoccolma? O che, da quel momento, dedicherà anima e corpo a distruggerli? Nella seconda stagione, forse, lo scopriremo.
© A cura di Dott. Marco Magliozzi – Psicologo Bari
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