Psicologia e percezione del Pericolo: cosa accade nella nostra mente?
Aprile 8, 2021 By Marco MagliozziScopriamo insieme cosa avviene nella nostra mente e quali aree del cervello si attivano quando si è di fronte a un pericolo, reale o percepito.
Partiamo da una principale e doverosa premessa: per sua natura, l’essere umano tende a concentrare la propria attenzione sui pericoli, piuttosto che sulle soluzioni o sui benefici.
Questa scelta, di origine prettamente inconscia, ha motivo d’essere in quanto la prima area del cervello ad attivarsi in caso di una minaccia – o anche solo di notizia di una eventuale minaccia – è il sistema denominato “rettiliano”, ovvero quella parte più antica della nostra mente che ci accumuna, in tutto e per tutto, ai nostri amici rettili. Questa zona si trova nel “tronco dell’encefalo” e gestisce tutte le dinamiche che hanno a che fare con gli istinti di sopravvivenza e le emozioni primarie primordiali, come la paura.
Non solo: gli esseri umani hanno una tendenza sistematica a sovrastimare eventi negativi che hanno probabilità molto piccole e contemporaneamente quella a sottostimare eventi positivi che hanno probabilità molto alte di concretizzarsi.
Prendiamo il classico esempio dell’incidente aereo: le probabilità di morire durante un volo sono 1 su 11 milioni. L’aereo risulta quindi circa 8 volte più sicuro di un treno o, addirittura, quasi 100 volte più sicuro dell’automobile. Eppure, come mai il terrore di volare è molto più diffuso di quello di guidare o di prendere un qualsiasi altro mezzo?
Andiamo più nello specifico.
Di fronte a un pericolo, reale o potenziale – anche solo una notizia di caratura negativa, ascoltata al telegiornale, vale come tale per la nostra mente -, il cervello “rettiliano” ci fa entrare in una modalità di “pre-allarme”, attivando tutte le risorse necessarie utili all’attacco o alla difesa, a seconda del pericolo avvertito.
Non essendo noi dei rettili (per fortuna), la nostra mente tenderà a integrare queste nostre reazioni istintive e primordiali con le abilità sviluppate grazie alle altre aree del nostro cervello, ovvero quella “limbica” (che ci accomuna ai mammiferi) e la “neocorteccia” (propria degli esseri umani).
Ecco che quindi si attiva anche la nostra capacità di “problem solving”, associata a uno stato di “lucidità mentale” e di “ragionamento”, utile ad affrontare un pericolo – anche se solo virtuale -, in maniera più efficace.
Come afferma il Professor Vittorio Pelligra, Professore di Politica Economica all’Università degli Studi di Cagliari, di fronte a un problema si corre il rischio di reagire in maniera spesso troppo istintiva, attuando meccanismi di difesa quali l’aggressione o al contrario la negazione, accompagnati da una propensione al giudizio e alla categorizzazione in maniera eccessiva. Queste dinamiche, nel tempo, intorpidiscono la mente allontanandola dalla ricerca delle soluzioni.
Il nostro cervello è pigro e tende alla semplificazione.
Se a ciò aggiungiamo che, per sua natura, il cervello tende alla semplificazione e all’approssimazione, ecco che si rischia di sviluppare una disfunzionale abitudine, ovvero quella di reagire ai pericoli attraverso scorciatoie di pensiero: il nostro cervello, infatti, è per sua natura “pigro”, vale a dire ricorre alle stesse strategie, anche se non portano alla soluzione desiderata.
Come comportarci quindi?
Il nostro compito, in qualità di esseri umani in continua evoluzione, è quello di consapevolizzare tali limiti della nostra mente e allenarla invece a nuove e più efficaci strade da percorrere!
Secondo le neuroscienze, infatti, nonostante il nostro cervello prediliga le abitudini, in realtà esso è anche facilmente allenabile e trasformabile; volendo usare un termine scientifico: neuroplastico!
Le esperienze, gli insegnamenti, nuovi comportamenti e strade di pensiero, modificano le reti neuronali, permettendo di sviluppare nuove capacità e abilità personali.
L’obiettivo finale è quindi quello di riuscire a integrare, nella maniera migliore possibile, i nostri “tre cervelli”, ovvero quello “rettiliano”, quello “limbico” e la “neocorteccia”, così da utilizzare i nostri istinti di sopravvivenza, le nostre emozioni e le nostre capacità deduttive in una maniera funzionale e cooperante, finalizzata al raggiungimento di uno scopo e al superamento di un pericolo.