Scopriamo insieme la psicologia alla base del capolavoro di Quentin Tarantin: Kill Bill
A cura di Sara Alicandro – scrittrice, cinefila e saggista dello spettacolo
Supervisione e approfondimenti: Dott. Marco Magliozzi – Psicologo Bari
Era il lontano 2003 quando Kill Bill fece il suo debutto nelle sale cinematografiche: un insieme di scene truculente, sangue, personaggi sui generis, dialoghi profondi ed emotivi mescolati ad altri letteralmente stupidi. Tarantino, insomma, in tutta la sua interezza. Il film, come sappiamo suddiviso in due parti, è ormai entrato a far parte dell’immaginario comune e, ancora oggi a distanza di 17 anni, possiamo analizzarlo e trarne molti interessanti insegnamenti.
Premessa
Quando si parla di Kill Bill, a meno che non si sia tarantiniani, i commenti sono abbastanza standardizzati, e somigliano bene o male a: “ah, sì, quella roba violentissima di quel pazzo di Tarantino”; in parte è pure vero. In parte. Nel senso che i due volumi filmici non sono di certo una passeggiata nel parco e Tarantino non è un regista esattamente ordinario. Però c’è dell’altro, sicuramente. Qualcosa di più profondo.
La prima parte della pellicola è quella che si potrebbe definire più pulp in assoluto, ovvero c’è tanto di prettamente artistico, giochi sottili a livello tecnico e tanta, tantissima assurdità, quella che vuole dire qualcosa, quella tarantiniana.
Il trauma iniziale: la vendetta come obiettivo di vita
Il primo spunto interessante lo si ha praticamente subito, nella sequenza in cui Beatrix Kiddo – nome che sarà censurato da un suono acustico fino a quasi la fine della seconda parte – si reca a casa di Vernita Green per ottenere la sua vendetta e ucciderla; tuttavia, mentre le due si accoltellano a vicenda nel soggiorno, entra in casa la figlia bambina di Vernita, Nikki, elemento che costringe le donne a recitare la parte delle amiche di vecchia data (coperte di sangue e con il salotto messo a soqquadro, ma questi sono dettagli).
Quando la situazione è finalmente fuori dalla portata e dalla vista di Nikki, ci si sposta in cucina per continuare a seguire le faccende che le ex killer hanno in sospeso. Vernita cerca di far leva sulla pietà, parlandole della figlia e del fatto che da molto tempo è una persona diversa da colei che, insieme al resto della Deadly Viper Assassination Squad, ha tentato di ucciderla quattro anni fa. Ma Beatrix si mostra poco pietosa, e la rassicura solo sul fatto che non la ucciderà davanti agli occhi della bambina; nonostante questa premessa, Vernita decide di giocare con il fuoco – in tutti i sensi – e le spara con un’arma che aveva nascosto nella scatola dei cereali di Nikki. La prontezza di riflessi di Black Mamba (aka Beatrix) non le perdoneranno quest’atto di impulsività, e così alla donna arriverà subito dopo un coltello al centro del petto, che la porterà ad accasciarsi sul pavimento, senza vita. Nessuna delle due avrebbe previsto che Nikki sarebbe comparsa sulla soglia della porta della cucina.
Le parole che la donna rivolgerà alla bambina sono il trigger di una serie di regole comportamentali che verranno assunte da tutti i personaggi coinvolti in combattimenti nel corso della pellicola: Non era mia intenzione farlo davanti a te, e questo mi dispiace. Ma puoi credermi sulla parola: tua madre se l’è cercata. Quando sarai grande, se la cosa ti brucerà ancora e vorrai vendicarti, io ti aspetterò.
Dopodiché, mentre Kiddo si dirige verso la sua Pussy Wagon, una voce (che si scoprirà essere quella di Hattori Hanzo) pronuncia delle parole in giapponese che invitano a non farsi mai trascinare dalla compassione quando si ha una spada in mano e un obiettivo in testa, pure se di fronte ci fosse Dio in persona.
La psicologia dei samurai
Da qui si avvia quella che si può definire la psicologia dei samurai, una sorta di linea guida disciplinare che vige perfino negli scontri più sanguinolenti del film. Perché ad essere violento Kill Bill è un film violento, ma ha una violenza regolamentata, non si uccide mai tanto per farlo e senza alcuno scrupolo.
Significativa in questo senso è la celeberrima sequenza del whistle di Elle Driver, nella quale la donna – sulle note di “Twisted Nerve” – si camuffa da infermiera per uccidere Beatrix nel sonno, che si trova in ospedale in coma dopo il massacro ai due pini; ma, proprio mentre Elle sta infilano la siringa in corrispondenza della flebo della donna, le arriva una telefonata di Bill, che le comunica di annullare la missione. Sconvolta e anche abbastanza in collera, Elle chiede il motivo di questo cambio di rotta repentino; la risposta di Bill è sorprendente: se questa donna ha resistito all’attacco killer da loro mirabilmente organizzato e nonostante tutto non è morta, l’ultima cosa che possono fare loro è assassinarla nel sonno “come dei topi di fogna”.
Se questo concetto lo si volesse adattare fuori del grande schermo, si potrebbe quasi dire che davanti all’abilità di resilienza di fronte persino ai traumi più gravi della vita, occorrerebbe sempre mettere da parte il disprezzo e mostrare, anche solo dentro di noi, ammirazione nei confronti di quella stessa capacità.
L’addestramento dei samurai
Passando al secondo volume, gli spunti interessanti sono altrettanti: per prima cosa, è doveroso segnalare il suggestivo addestramento di Pai Mei, un esempio lampante di resilienza e di trasformazione della testardaggine in spinta propulsiva a dare il tutto e per tutto per combattere.
Sono tante le parole del maestro che, seppur molto dure, facilmente si prestano ad essere lezioni di vita. Nelle sequenze vediamo una Beatrix sofferente che cerca – invano – di distruggere con la sola forza del pugno una tavola di legno spessissima. Pai Mei le dice che il problema è il suo temere il legno, quando dovrebbe essere il legno a temere la sua mano. Questo potrebbe insegnarci che se nel nostro cammino all’interno dell’esistenza affrontiamo gli eventi inaspettati con paura, finiremo per soccombere sempre, ci lasceremo travolgere dall’imprevedibilità della vita e dall’impossibilità del nostro controllo perenne su di essa.
Invece, come ci insegna Beatrix, dobbiamo guardarli in faccia e affermare con decisione: “Ecco Pai Mei, sono pronta.”
Perciò, sì, anche nei film di Tarantino ci sono profondissime riflessioni da fare, tante nemmeno lontanamente accennate in questi luoghi, per forza di cose.
Conclusioni psicologiche
Se dovessimo fare un vademecum riassuntivo di quelle che analizzato, però, sarebbe questo: qualsiasi cosa decidiamo di fare nella nostra vita, sempre con disciplina, rispettando noi stessi e gli altri con la messa in pratica continua del rispetto, declinato in tutte le sue forme.
Mai arrendersi davanti a ciò che ci fa del male, perché dentro di noi esisterà sempre la forza per affrontare tutto finché siamo vivi; ultimo, ma non meno importante, mai permettere ad altri di decidere chi siamo. Solo il nostro cuore è a conoscenza di questo. È importante avere il coraggio di cambiare strada quando e se si percepisce che quella imboccata ci sta allontanando dalla nostra essenza più profonda.
Non ci sono scuse, la vita è nostra e lo saranno anche le orme che vedremo quando ci volteremo a percorso finito per vedere i passi fatti, ed è giusto sentirsene orgogliosi. Proprio perché nostri.
A cura di Sara Alicandro – scrittrice, cinefila e saggista dello spettacolo
Supervisione e approfondimenti: Dott. Marco Magliozzi – Psicologo Bari
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