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L’invidia: un’emozione umana dal doppio volto

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Molto raramente si parla di invidia, un’emozione spesso non accettata, troppe volte sottaciuta o mascherata utilizzando sofisticati stratagemmi comunicativi.

Una componente emotiva che agisce costantemente dentro le nostre vite, che guida le nostre scelte, i nostri pensieri, comportamenti e rapporti interpersonali.

L’invidia è una prerogativa prettamente umana, assente nelle altre specie animali, in quanto fiorisce esclusivamente grazie al contatto con i propri simili, generando l’abitudine assai frequente del paragone.

L’origine del termine invidia deriva dal latino, in + videre, ovvero guardare contro, guardare con ostilità.

Il Sommo Poeta, ad esempio, all’interno del XIII canto del Purgatorio, descriveva gli invidiosi come anime tormentate e cieche, con le palpebre cucite da un fil di ferro: la pena era proprio quella di precludere la vista, troppo spesso usata in vita per paragonarsi al prossimo e, quindi, invidiarlo.

Un’emozione che fonda le sue radici ben prima di Dante; già nelle sacre scritture scorgiamo esempi simili, come quello di Lucifero, l’angelo splendente, il più luminoso del paradiso, che si ribella a Dio invidiandone il potere. Nella Genesi troviamo inoltre la storia di Caino, l’emblema dell’omicida nella storia umana, che uccide il fratello Abele poiché invidioso dell’amore che Dio provava per lui.

Possiamo citare la vicenda di Giuda, narrata nei Vangeli, ovvero il discepolo di Gesù che tradisce il maestro poiché guidato proprio dall’invidia.

Ancor prima della Bibbia, il famoso scrittore greco Esopo ci ha erudito con le sue favole, donandoci un allegorico senso di questa emozione: “quando la volpe non arriva all’uva, dice che è acerba”.

Le scienze psicologiche definiscono infatti l’invidia come “un’emozione universale che sperimentiamo nei confronti di qualcuno quando valutiamo che il suo successo evidenzi l’inferiorità del nostro status o la nostra sconfitta. Spesso è diretta verso chi, attraverso una prestazione simile alla nostra, ottiene un risultato che desideriamo per noi: quindi per successi che sono alla nostra portata. Include generalmente rabbia e ruminazione costante, basate sulla minaccia allo status”.

Il termine “status” è più volte sottolineato in quanto, come detto in precedenza, questa emozione viene coltivata solo all’interno di un gruppo sociale di individui. Il paragone, il senso della distanza tra un soggetto e un altro, il divario di valore e il senso di inferiorità che ne deriva, sono tutte dinamiche che la nutrono.

Secondo le principali teorie psicoanalitiche sullo sviluppo infantile formulate da grandi autori quali Melanie Klein e Anna Freud, una forma primitiva di invidia apparirebbe già in fase neonatale: il neonato prova la sensazione di dover dipendere, completamente, dal seno materno, considerato come fonte di tutto ciò che per lui è gratificante: alimentazione, calore e benessere.

Essendo un oggetto «separato da sé», il neonato inizia a sviluppare una forma arcaica di invidia, come se fosse egli stesso a volerlo possedere come parte propria del suo corpo.

Con il passare degli anni, l’invidia si evolve ed ottiene un ruolo più “sociale”.

1) Nei bambini si attiva il “complesso di Edipo” ovvero una inconscia competizione amorosa che il figlio nutre nei confronti del genitore del sesso opposto.

2) Nelle bambine si attiva quella che viene chiamata “invidia del pene”, ovvero la sensazione negativa di non possedere un organo sessuale come quello maschile oltre ad una inconscia rivalità nei confronti della madre che, al contrario della bambina, ha la possibilità di poter “godere” del pene paterno.

Un’emozione, quindi, che ognuno di noi possiede e coltiva costantemente, già dalla tenera età.

A seconda degli insegnamenti ricevuti e delle esperienze vissute, il bambino impara a gestire soggettivamente questa emozione, riuscendo o meno a trasformarla in una risorsa oppure, come spesso capita, viverla come un dramma emotivo.

L’invidia possiede infatti due facce, quasi come fosse una sorta di maschera con due volti: una luminosa e una oscura.

La “maschera” luminosa viene definita benigna, ovvero caratterizzata da una funzione costruttiva e che riguarda l’attivazione della motivazione ad assumere e perseguire comportamenti orientati a migliorare le proprie capacità e il proprio status sociale.

Questa emozione può essere benigna quando porta all’emulazione: in questo caso serve per canalizzare le energie per cercare di ottenere un profitto o un riconoscimento dato ad altri.

«Chi arriva secondo potrà invidiare chi l’ha superato, ma si allenerà per superarlo alla gara successiva».

La maschera oscura mostra invece un aspetto maligno, che rispetta il dictat “l’erba del vicino è sempre più verde”.

Le persone che provano invidia maligna sentono inconsciamente 3 messaggi:

Presso l’Università di Warwick, in Gran Bretagna, fu condotto un curioso esperimento: i partecipanti, con un gioco sviluppato al computer, ottenevano differenti somme di denaro e bonus casuali. Avevano la possibilità di bruciare i guadagni degli altri, visibili sullo schermo, restando anonimi ma sacrificando parte delle loro vincite.

Secondo i ricercatori: “ben il 62% dei giocatori lo ha fatto, pagando fino a 25 centesimi per ogni euro bruciato, cioè perdendo soldi pur di annichilire la ricchezza altrui. Per invidia e risentimento verso guadagni ingiusti. Non solo gli svantaggiati colpivano i più ricchi e avvantaggiati dai bonus: i ricchi, sapendo che sarebbero stati bruciati, colpivano tutti per rappresaglia… Dal test è emerso”, dicono gli autori della ricerca, “il lato oscuro della natura umana”.

L’invidia maligna si suddivide a sua volta in due sottocategorie:

Tra le caratteristiche dell’invidia maligna possiamo quindi annoverare: lamentarsi con gli altri per l’ingiustizia subita, adottare comportamenti di sabotaggio, sminuire l’oggetto di invidia, ruminare, evitare la persona invidiata, ritirarsi socialmente, abusare di alcol e sostanze, mettere in atto comportamenti autolesivi.

La trasformazione più estrema di questa emozione la riscontriamo quando essa si altera in una sua forma psicopatologica. Quando ciò accade i contenuti e i processi cognitivi disfunzionali diventano rigidi e perseveranti: il confronto con l’altro innesca pensieri e credenze di autosvalutazione e senso di inferiorità, che spingono l’individuo verso comportamenti distruttivi e aggressivi, verso l’altro o verso sé stesso; mentre in taluni casi prevale un quadro di evitamento e passività, in cui sono presenti stati di impotenza e autocommiserazione.

L’invidia patologica è caratterizzata da una elevata quota di rancore e astio, al punto che la persona oggetto dell’invidia è deumanizzata e odiata.

L’invidioso può arrivare addirittura a danneggiare l’altro, anche compiendo atti criminosi.

Secondo la Prof.ssa Rita Mascialino, pedagogista e studiosa, alla base di molti femminicidi, infatti, questa emozione si pone come movente inconscio principale: “l’uomo femminicida è invidioso della libertà della donna di autodeterminarsi, di scegliere il proprio destino senza impedimenti da parte del partner, un destino  prestigioso come carriera, successo e simili, un destino che l’uomo mediocre non vuole lasciare a disposizione della donna perché non sopporta di sentirsi ad essa inferiore, così che giunge ad ucciderla adducendo come motivazione la gelosia, addirittura il troppo amore”.

Spetta quindi a noi, infine, il compito di decidere se vivere questa emozione come energia benigna, una leva motivazionale per raggiungere dei traguardi, o maligna, sotto forma di negatività utile soltanto a creare pensieri limitanti e destrutturanti verso noi stessi e gli altri e che nei casi più estremi possono sfociare in atti ostili verso il prossimo.

Comprendere appieno quali energie inconsce ed emotive ci guidano dal profondo è il primo passo verso il nostro benessere.

L’invidioso non usa mai ciò che ha, gli manca sempre ciò che vuole. Non ha, e non è: cerca di essere e di avere qualcosa che nemmeno conosce e che desidera solo perché appartiene ad altri.

Vittorio Andreoli

Dott. Marco Magliozzi – Psicologo Bari

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